“Ho aperto la finestra troppo tardi
con i capelli grigi…
…E’ difficile ad una vita qualunque
possedere gli oceani
con le finestre chiuse.
Le ho aperte,un giorno
Con le mani diafane e tozze
ed è stato come raccogliere
cocci di vetro a piene mani.”
(Sogni a porte chiuse)
Questi versi sono il compendio di come ho vissuto e di
ciò che ho desiderato fare, sono la sintesi e lo
specchio che mi spiega.
A sessanta anni sono uscita diplomata dall’accademia di
Belle Arti di Catania, nel 1992.
Mi sentivo una giovinetta pronta ad afferrare al volo la
sua nuvola azzurra ed iniziare il viaggio della vita. In
effetti era un po’tardi. Avevo già tre figli grandi da
seguire nel loro cammino. Mi feci coraggio. La vita ha
tante strade: larghe e tortuose, possiamo tutti
incamminarci e seguire il proprio destino. Ho camminato
in questi anni, conoscendo persone e percorrendo diverse
direzioni artistiche
Mi intriga molto il materiale doloroso. Mi spiego: la
materia che taglia, graffia e fa sanguinare.
Il filo spinato , il vetro, gli specchi scheggiati, la
lamiera tagliente. Sono le mie vesti, il mio volto, i
miei sentimenti divenuti materia visibile.
Le alti scale di ferro con i gradini mancanti monchi
dall’usura del tempo.
La croce in ferro,altissima, rappresenta il dolore
dell’uomo. Si trascina in una faticosa ascesa la zavorra
dell’umano esistere.
Non ho mai cercato d’interpretare le mie opere
spiegandone il significato. Spesso non è chiaro nemmeno
a me, lo capirò più tardi a opera compiuta.
Lavoro per istinto. C’è una molla interiore che spinge,
ordina, alimenta il desiderio, progetta piani d’azione,
tempi d’esecuzione. Eseguo schizzi, disegni completi con
misure senza quasi rendermene conto. Debbo soltanto
ubbidire a me stessa fino alla fine dell’opera e quando
tutto è compiuto, io mi chiederò stupefatta: - perché
l’ho fatto?-
Se la progettazione è chiara, e cosi l’esecuzione, non
mi è chiara invece la spiegazione del significato
profondo dell’opera. Alla fine comprendo, a parto
avvenuto, perché l’ho realizzata e che cosa significhi
per me. A volte ho dei dubbi e sono proprio gli estranei
che di colpo riescono a vedere l’opera e spiegano a me
ciò che hanno interpretato, complimentandosi. Io rimango
illuminata, dopo tanto lavoro, per la mia cecità. Mi
accorgo, felice, che l’opera ha parlato, rivelandosi
agli estranei prima ancora di me. Io sapevo, senza
sapere.
Ho avuto sempre bisogno di materia tra le mie mani.
Materia da plasmare, modificare, aggiustare, incollare,
piegare e dopo questi gesti sentirmi paga.
Ero ragazzina quando inseguivo mia madre per spiegarle
che cosa volevo fare da grande: - Voglio lavorare con le
mani. La mia fantasia e le mie mani. –
Idee da realizzare,farle diventare cose d’afferrare,
stringere. Le mie parole mettevano paura a mia madre.
Erano proposte troppo lontane da lei , proposte
indecenti per una brava fanciulla. Ma erano la mia più
grande aspirazione l’unica. Guardavo le mie mani e mi
chiedevo se quelle piccole mani fossero state
capaci …
Mia madre desiderava solo che io ricamassi al telaio. “
E’ un lavoro manuale, puoi accettarlo” Non
l’accettavo,era già programmato da altri. La mia
creatività dove andava a finire?
Si chiedeva angosciata cosa io avessi in mente da voler
realizzare con tanta determinazione, cose che lei non
poteva nemmeno immaginare, quindi cose insensate da
combattere. Mi proponeva lo studio del pianoforte :
“realizzerai tutte queste melodie con le tue mani.” Mi
proponeva speranzosa.
“Creazioni di altri artisti” ribattevo. Le mie piccole
mani di allora non erano capaci di afferrare in un sol
colpo le cinque note. Dovevo rapidamente fare il salto.
La maestra mi esortava ad insistere perché con un lungo
esercizio, le mani si sarebbero allargate ed in seguito
avrei potuto afferrare le note .Per mia madre era lavoro
manuale imparare a cucinare, pulire la casa e anche
cucire. Tutta la mia giovinezza l’ho trascorsa
guardandomi le mani.
Molto avanti nel tempo ho cominciato ad abbracciare
l’arte , il giusto lavoro per le mie mani, l’espressione
del mio pensiero. E’ accaduto quando sono uscita fuori
dalla giurisdizione di mia madre. Benché io fossi
sposata,sperava sempre che mio marito mi ostacolasse
nella realizzazione dell’oscena mia passione : l’Arte.
L’Arte non si può uccidere, resiste al tempo, alle
angherie, ai soprusi.
Bisogna in seguito proteggere tutte le opere realizzate,
come una madre protegge i propri figli, finché vive,
così l’artista che ha dato vita alle proprie opere deve
aver cura di loro, tenerle unite, tutelarle.